Nel reato di diffamazione a mezzo stampa, in mancanza di una indicazione specifica ovvero di riferimenti inequivoci a circostanze e fatti di notoria conoscenza attribuibili ad un determinato soggetto, tale individuazione deve essere deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione oggettiva dell’offesa, quale si desume anche dal contesto in cui è inserita. Tale criterio oggettivo non è surrogabile con le intuizioni e con le soggettive congetture che possono insorgere in chi, per sua scienza diretta, può essere consapevole, di fronte alla genericità di una accusa denigratoria, di poter essere uno dei destinatari, se dal contenuto della pubblicazione non emergono circostanze obiettivamente idonee alla rappresentazione di tale soggettivo coinvolgimento.
Il procedimento era sorto a seguito delle dichiarazioni di un conduttore e giornalista, il quale aveva proferito una serie di affermazioni nei confronti di “alcuni magistrati della Procura della Repubblica di ____”. Il Tribunale di primo grado aveva assolto l’imputato sulla considerazione che, pur essendo indiscutibile la valenza offensiva delle dichiarazioni, si era raggiunta la prova che esse avevano quale destinatario il sostituto procuratore prima titolare delle indagini e successivamente pubblico ministero nella udienza, e non il pubblico ministero querelante, sostituto occasionale in udienza del precedente e co-firmatario della richiesta di rinvio a giudizio. La Corte d’appello, al contrario, aveva condannato l’imputato evidenziando che l’imputato non poteva non essere a conoscenza del fatto che la richiesta di rinvio a giudizio fosse stata sottoscritta anche dal P.M. querelante, nonché del fatto che le dichiarazioni del giornalista-conduttore dovevano ritenersi percepite dalla platea di ascoltatori come rivolte anche al querelante, posto che la stampa e i media avevano abbondantemente trattato delle indagini in questione come affidate anche alla persona offesa, e la notorietà di alcuni imputati del processo aveva catalizzato l’interesse del pubblico ed indotto lo stesso a riconoscerne “gli attori”. La Suprema Corte, dal canto suo, ha rilevato che la sentenza di secondo grado opera una ricostruzione che riguarda unicamente la volontà, rectius, l’intenzione, dell’imputato circa il reale bersaglio delle offese, peraltro valorizzando circostanze realmente eccentriche rispetto al reale contenuto ed al contesto delle dichiarazioni, quali il fatto che la persona offesa fosse stato contitolare delle indagini ed avesse sottoscritto la richiesta di rinvio a giudizio. È la stessa ricostruzione della Corte d’Appello, secondo la Corte di Cassazione, a fornire la prova della impossibilità, da parte della platea di ascoltatori, di individuare il destinatario effettivo delle espressioni offensive, considerato anche che la notorietà dell’imputato, pure capace di attirare attenzione ed interesse sull’andamento del processo, non induce automaticamente il fatto di diffusa cognizione di un elemento – il nominativo del pubblico ministero dell’udienza – certamente secondario e di minore rilievo nel contesto descrittivo del fatto comunicato.